Auguri Al Pacino dalla tua San Fratello

Il 25 aprile taglia il traguardo dei 75 anni uno dei più grandi interpreti di tutti i tempi, vincitore di un Oscar nel 1993. La famiglia è originaria di San Fratello.

di Cristian Sciacca.
Un ciuffo di capelli bianchi o mancanti. Il respiro che si fa corto camminando in salita. Essere presi per pazzi dai teenager odierni se gli si cita un cult della propria adolescenza, a loro ignoto. Sono diversi i segni del tempo che passa: ce n’è uno però che, almeno per quel che riguarda una certa fetta – anche piuttosto grande – di pubblico, lascia basiti: Al Pacino compie 75 anni.

75 anni li compie quel volto dalle mille vite, che hanno in comune quegli occhi, scuri, penetranti e indimenticabili, quelli di Serpico, Michael Corleone, Tony Montana, Carlito Brigante, John Milton e Tony D’Amato. Occhi che si aprono per la prima volta il 25 aprile 1940, ad East Harlem, vicino Manhattan: Alfredo James è figlio di Salvatore Pacino e Rose Gelardi, originari rispettivamente di San Fratello (Messina) e Corleone (Palermo). Un’infanzia poco infantile per Al, che va a vivere dai nonni nel South Bronx, tra poco cibo, pochissimi libri e tante sigarette, compagne giornaliere dall’età di 9 anni. A vent’anni – come ha rivelato nel 2009 – la sua professione era il gigolò, in Sicilia.

La svolta, come spesso capita, è rappresentata da un uomo: un newyorkese nativo di Budaniv (oggi Ucraina, ieri Impero Austro-Ungarico), giornalista, poi critico teatrale, poi attore che rilesse a modo proprio il metodo Stanislavski, tanto in seguito da applicargli la propria etichetta. Perchè se oggi conosciamo il metodo Strasberg e oggi sappiamo chi è Al Pacino, lo si deve a quel Lee Strasberg che, in qualità di direttore dell’Actor’s Studio, scoprì alla fine degli anni ’60 il talento di Al.


L’inserimento nel circuito è opera di Strasberg ma l’ingresso nell’Olimpo è per merito di un altro italo-americano, stavolta di Detroit: Francis Ford Coppola. Ecco, per capire meglio cosa si intende oggi con l’espressione ‘altri tempi‘, bisogna considerare un aspetto: lasciando da parte i più anziani Brando e Duvall, quando viene girato Il Padrino, Coppola aveva 33 anni, uno in più di Pacino e James Caan e 7 più di Diane Keaton. Quel manipolo di ragazzi mise in piedi uno dei più grandi film di sempre, eguagliato due anni dopo dall’epocale Parte II (col 31enne Robert De Niro). La performance di Al Pacino in entrambe le pellicole è indescrivibile, l’aggiunta di ulteriori avverbi e aggettivi sarebbe finanche inopportuna. L’interpretazione romanzesca di Michael Corleone serve però, anche oggi, a oltre 40 anni di distanza, a ridurre notevolmente il peso specifico della statuetta chiamata Oscar quando si considera l’intera carriera di un attore. La nomination per i due Padrini – con Serpico nel mezzo – arriva (da non protagonista nel primo, da leading nel secondo) ma Al viene superato prima da Joel Grey (Cabaret), poi da Art Carney (Harry e Tonto). Il primo e unico Academy Award Pacino lo vincerà a 53 anni suonati, per Scent of a Woman (dove rifà un ruolo già di Gassman), eludendo lo stesso destino di gente come Richard Burton, Glenn Close, Rita Hayworth o Marlene Dietrich.


Gli anni ’80 sono i più impegnativi, artisticamente parlando, per Al: l’interpretazione del poliziotto infiltrato nella comunità gay nel sottovalutato Cruising lo fa diventare bersaglio di critiche da un po’ tutte le parti. Se gli attivisti LGBT accusano il film di omofobia, i più maligni sostengono che Al, o è realmente gay o è talmente bravo da sembrarvi. Voci, queste ultime, che oggi considereremmo risibili. L’83 è il grande anno di Scarface, magniloquente ascesa e caduta del narcotrafficante cubano Tony Montana per le strade di Miami, omaggio di Brian De Palma al maestro Howard Hawks. Il film è a suo modo iconico, a tratti pacchiano, ma la prova di Pacino è a dir poco sensazionale. Le premesse per spaccare definitivamente ci sarebbero tutte, pare il momento giusto per piazzare Revolution, il grande film sull’indipendenza americana. Se non fosse che l’opera, firmata da Hugh Hudson, è un assoluto disastro, rivelandosi tra le più noiose del decennio e debolissima ai botteghini. La conseguenza è che Al Pacino stacca per quattro anni col cinema ma si avvicina al teatro. Ed è qui che avviene una sorta di rinascita.


In un’intervista rilasciata a metà anni ’80 a The Hollywood Reporter, Al Pacino aveva detto: “Mi sento più vivo in un teatro che in qualunque altro posto, ma quello che faccio in teatro l’ho preso dalla strada.” Ecco perchè l’esordio dietro la macchina da presa, Riccardo III – Un uomo, un re (1996), non poteva che essere un esempio di meta-teatro e meta-cinema, appassionato e straniante.
Come le già citate mille vite del ragazzo di East Harlem. Perchè se l’artista è sovrumano e instancabile (lo rivedremo in The Irishman, con Scorsese e De Niro, un compendio della New Hollywood), l’uomo è inevitabilmente umano. L’anno scorso Al ha parlato di quella brutta bestia chiamata depressione, toccata con mano: “Non va mai via, è terribile. Però la tengo a bada, non l’ho vissuta con intensità: mi ritengo fortunato.”

A proposito di fortuna, la lista delle sue conquiste comprende Beverly D’Angelo, Penelope Ann Miller, Diane Keaton e Madonna. Sei nato povero e non arrivi che al metro e settanta, ma se sei Al Pacino, non importa. Perchè sei Al Pacino. Ora e fra altri 3/4 di secolo.

Fonte: giornaledigitale.it

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