STORIA Quando Cristiani e Arabi vivevano pacificamente sotto lo stesso tetto, arricchendolo e migliorandolo.
Enrica Bartalotta.
Se consideriamo la geografia, noteremo immediatamente coma la
Sicilia sia ben più vicina alla parte Nord dell’Africa che non a Roma.
Alcune delle grandi civiltà del mondo si trovavano lì; molte arrivarono in
Sicilia da Oriente e ne influenzarono per sempre mentalità e cultura.
Questo soprattutto perché molte di queste invasioni
furono pacifiche; volte sì alla conquista del territorio, ma non con
l’obiettivo di distruggerne le caratteristiche e nemmeno le usanze degli
abitanti, bensì con l’obiettivo di nutrirle e di integrarle.
Basti pensare ai Greci, ma anche agli Arabi e ai Bizantini,
le cui influenze ancor oggi si respirano non solo nell’architettura e
nella cucina, ma anche nella toponimia di diversi luoghi e strade e persino dei
cognomi dei cittadini.
Geologicamente, sembrerebbe infatti che la Sicilia non
sia mai stata attaccata allo Stivale, ma che fosse in realtà un ‘pezzo’ di
Africa, in corrispondenza del golfo libico della Sirte.
Gli Arabi arrivarono in Sicilia nel IX secolo, e la loro influenza vi permase
fino al 1492, l’anno fatidico in cui Ferdinando ‘Il Cattolico’, re di Spagna,
decise la diaspora per chiunque non fosse di religione Cristiana, dunque Arabi
ed Ebrei.
Fu infatti proprio sotto il dominio dei viceré spagnoli, che
l’Isola conobbe uno dei suoi periodi più tristi e poveri; attraverso
il regno ‘dei Signori’ prima e con l’istituzione del Sant’Uffizio poi. Fu in questo periodo infatti che venne annullata ogni iniziativa di arricchimento
culturale e impedita l’iniziativa politica.
Nel Cinquecento come in epoca Romana, la Sicilia era dunque
soltanto una provincia destinata ad essere spremuta dal punto di vista
lavorativo (specialmente agrario e conseguentemente commerciale) e nulla più.
Al contrario di quanto accadde durante il regno di Federico II o ancor prima
degli Altavilla, quando Cristiani e Arabi vivevano pacificamente sotto
lo stesso tetto, arricchendolo e migliorandolo. Testimonianze di quella convivenza ben riuscita si scorgono
in alcuni nomi di origine araba come Alcamo, Marsala e Favara. A Catania
si trova una località denominata Caito, nei pressi del lungomare; l’etimo
sembrerebbe risalire alla parola ‘Kaid’ o ‘Al Kaid’, dove con tutta probabilità
si trovava il palazzo amministrativo islamico.
Per non parlare poi delle strutture, dei santi sepolcri
ed edifici con finale a cupola, denominati ‘cuba’, o delle città e
località che iniziano con il toponimo ‘- Cala’ come Caltagirone o Calatafimi. A Palermo si trova la
‘Zisa’, che come indicato dal nome stesso è un palazzo meraviglioso,
maestoso; a Catania si trova un quartiere denominato ‘Zia lisa’, che si presume possa
essere una storpiatura dell’omonimo termine arabo.
La stessa parola ‘mafia’ sembrerebbe essere di origine
orientale. Lo studioso Antonio Di Gregorio sostiene infatti che ‘Afia’ significhi forza,
mentre la lettera ‘M’ in arabo non è altro che un avversativo ovvero un
‘non’. È possibile dunque che ‘mafia’ significasse inizialmente ‘non forte’,
‘non prepotente’; sono molti gli studiosi che ritengono che la mafia fosse in
realtà diversa, che abbia nei secoli subìto un cambiamento, che precedentemente
asservisse al bene comune, che fosse insomma nata di sostegno al popolo, contro
lo strapotere dei signorotti.
Ma le influenze arabe sono particolarmente evidenti
nella cultura culinaria di Sicilia. Basti pensare al cous cous, usato e amato
soprattutto in zona di Trapani e Marsala; e
poi ancora alla cubbàita, o alla granita, che è stata proprio importata
dagli Arabi.
In Sicilia vi sono poi arancini e crespelle ripiene che
somigliano un po’ al turco ‘falafel’; stesso discorso per pane e panelle che
vengono oltretutto realizzate a base di farina di ceci, un ingrediente
molto utilizzato nella gastronomia orientale.
Sembra che anche i cannoli fossero di origine araba, e
la cassata, che gli islamici chiamavano infatti ‘qas’a’. Simili alle cassatelle
o panzerotti dolci, sono poi i katayef; ma in tutto il mondo arabo si usa anche
cucinare una squisita insalata di peperoni e melanzane, simile alla
caponata o alla peperonata.
Per non parlare poi dell’utilizzo del sesamo, sia
in ambito dolciario che in quello dei prodotti da forno in genere (ad esempio
sul pane), che è anche un ingrediente tipico della cucina dell’area dei Balcani
e oltre. Anche la parola siciliana ‘giuggulena’ che indica il sesamo è di
origini arabe; stesso discorso per lo zafferano, sia come toponimo che come
coltura.
Molte sono infatti state le coltivazioni introdotte dagli
Arabi in Sicilia. Come lo zucchero, le banane; e come dimenticare poi lo
‘zibibbo’? Ma la cultura araba si intreccia inestricabilmente anche alla letteratura dell’Isola,
attraverso l’antico
personaggio di ‘Giufà’, antesignano di Pierino.
‘Giufà’, o in arabo ‘Giuha’, è la maschera-simbolo della
Sicilia. Ragazzo maldestro e un po’ pigro ma anche buffo e allegro, di lui
parlano tantissime storie che accomunano il suo derivato siciliano al suo
antenato arabo, e che caratterizzano molta della produzione orale
tradizionale e antica dell’Isola.
Alcuni pensano inoltre che la cultura araba abbia
influenzato il resto d’Italia, molto più di quanto non si pensi o si sappia. Ad
esempio attraverso l’introduzione nel volgare degli articoli, non presenti in
latino, oppure attraverso la tipica aspirazione della ‘c’ che caratterizza,
ancor oggi, il toscano, da cui la nostra lingua è nata.
Dante Alighieri stesso aveva affermato di aver molto
apprezzato le produzioni siciliane della scuola di Federico II, che furono
di fatto il primo esempio di volgare esistente in Italia; la stessa “Epistola
del perdono”, opera di uno scrittore persiano, sembra essere stata presa come
spunto per la realizzazione della Divina Commedia, ma per ora non esistono
ancora documentazioni a sostegno di questa tesi.
Fonte: siciliafan.it
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