Il Galloitalico di San Fratello, linguaggio criptato

Si racconta che nell’ultimo conflitto mondiale, quando ormai la guerra delle spie aveva raggiunto livelli tali da rendere vano qualsiasi cifrario segreto, occorreva fare in modo da non riuscire a decodificare i dispacci classificati “Top secret” . 


Qualcuno che era a conoscenza delle caratteristiche della parlata sanfratellana, pensò di utilizzare soldati di San Fratello alle estremità del telefono, per la trasmissione di informazioni segrete. Si racconta che la cosa funzionò benissimo e che, nonostante le intercettazioni, furono spiazzati tutti i cifrari per la traduzione dei messaggi. 


Quanto ho detto ha più un sapore aneddotico, ma una cosa è certa: i Sanfratellani, quando parlano in fretta sono veramente incomprensibili. E c’è di più: usano spesso un linguaggio criptato, nel quale fanno uso di termini che poco o nulla hanno a che fare con l’oggetto della conversazione, dando largo spazio all’ironia e all’autoironia, ma un particolar modo il tono e la cadenza della voce, aspetti questi molto importanti che, per chi non è del luogo, spesso possono venire interpretati come offensivi.

Non manca l’uso di termini che nella parlata comune vengono interpretati in maniera erronea da chi ascolta. Tali ad esempio:


“Palangäna” “farfalla”, diversa da “parpaghjan” che è una farfalla più piccola. Il termine potrebbe derivare da palanca, che era un’antica moneta di pochi centesimi, con la quale avrebbe in comune la caratteristica di “volare” continuamente.

“Muoss”, in genere usato per gli animali, per “bocca”. Nell’epressione “stuzers u muoss” “asciugarsi la bocca” significa perdere tutto lavoro fatto. L’espressione è ironica e si riferisce a chi dopo un lauto pranzo si alza sazio e soddisfatto.

“Signaur zzieu”, lett.: “signor zio”, titolo dato dai nipoti ad uno zio prete, che qui sta ad indicare il pitale per la sua forma cilindrica che con coperchio somigliava ad una cappello da prete.

“Spezzachientar” per “gelsomino”, ma che letteralmente si traduce con “rompi pitali”; con lo stesso significato esiste nella lingua siciliana “spezzalanceddi”, mentre “spezzacantiri” usato al plurale (v. Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto, Vol. V) ha il significato di “stravaganti”, quindi poco avrebbe a che fare con il significato di gelsomino e che nell’allusione sanfratellana potrebbe sottintendere l’azione necessaria per raccogliere il fiore, posando il vaso in posizione instabile con la conseguente caduta e rottura dello stesso.


“Na peiula di sau” che si traduce con “una corda di sole” e che poco significato avrebbe se non si facesse ricorso alla millenaria cultura sanfratellana della misurazione del tempo basata sulla posizione del sole nella volta celeste; così “u sau è a cciaum” il sole è appiombo quando è mezzogiorno; verso il tramonto, il tempo viene misurato facendo uso virtuale di una corda di circa due metri fatta di crine animale, detta “peiula”, proiettata all’orizzonte e calcolando la distanza tra il mare e il sole, e che nel caso di cui parliamo corrisponde a circa due ore di luce, prima del tramonto.

“Terrafierma” sta per ‘terraferma’, ma per i sanfratellani ha il significato di “terremoto”, quasi un ordine, come quello dato da Giosuè al sole, affinché la terra non si muova. San Fratello è stato sempre ricordato per gli smottamenti e poco per i terremoti; ma qualcosa d’importante deve essere successo nella sua storia, lo deduciamo da quanto ci fa sapere Vito Amico nel suo “Dizionario Topografico della Sicilia, tradotto dal latino ed annotato da Gioacchino Di Marzo” (Morvillo, Palermo 1855). A pag. 450 del Vol. I si legge: “Il registro fatto sotto Carlo V recava 636 case, e nel 1595 eran 2300 anime; nel 1652 le case 950 e 3419 abitanti, nel 1713 le case 858 e i cittadini 3236, che ultimamente 3613.”
L’Amico dà anche notizia del dialetto e prosegue:
“(…) È San Filadelfio [ndr: ora San Fratello], né erroneamente, una delle colonie di Lombardi addotte dal Conte Ruggiero, il che ci mostra chiaramente il linguaggio degli abitanti, il più oscuro degli altri dalla medesima gente in Sicilia stabiliti. Fiorì il paese fino ai nostri tempi [ndr: 15 marzo 1757, data della Dedica dell’opera a Giovanni Fogliani di Aragona, viceré di Sicilia], ma ultimamente nel 1754 dopo non poca pioggia in molti jugeri sprofondando il suolo, quasi una metà verso ponente ne trasse in ruina, ed aprendosi la terra, assorta quasi in metà la parrocchia stessa di Santa Maria, perì con gran perdita, ed in luogo più opportuno prese a rifabbricarsi [ndr: quindi la Matrice distrutta dalla frana del 1922 in precedenza si trovava in altro luogo. (...)”

Tornando al censimento delle case e degli abitanti riportati dall’Amico possiamo dedurre che tra il 1652 e il 1713 deve essere successo qualcosa di grave se le case sono passate da 950 a 858, con una perdita di 92 unità, e si spera che i 183 cittadini mancanti all’appello abbiano avuto una sorte migliore. Non so se negli atti parrocchiali di San Fratello se ne faccia cenno, ma è verosimile pensare a causa di frana o terremoto. Gli annali parlano di un terremoto disastroso che ebbe luogo l’11 gennaio del 1693 e rase al suolo la città di Noto, è quindi pensabile che anche altri paesi della Sicilia, tra i quali San Fratello, possano essere stati coinvolti pesantemente.


“Terra” nelle espressioni “craver di terra”, “ghj’ami di nuov a la terra si n vean (L. Vasi: “I giurnatärij”): ha il significato di “paese, casa” e non di campagna come potrebbe sembrare. Pertanto la traduzione delle espressioni è “caprai di paese” e “gli uomini se ne tornano di nuovo a casa”.

“Duieuna” ‘dogana’ nel detto “èssir na mäla duièuna” (essere una cattiva dogana). Nel sec. XV gli Aragonesi instaurarono nel sud Italia, e in Sicilia, le “Dogane” che avevano il compito di esigere le tasse su tutti gli allevamenti; avevano anche una funzione assicurativa e in caso di moria di animali dovevano corrispondere agli allevatori un indennizzo che poche volte raggiungeva gli aventi diritto. Nel significato corrente indica una persona pessima pagatrice.

“Zumàn” “grande gobba”; nel significato comune viene indicato un pagliaio costruito male.

“Catuosg” parte bassa della casa in genere adibita a magazzeno o altro. Questo termine viene ironicamente usato per indicare anche lo stato d’animo e altre situazioni figurate, come “avar d’ärma ô catuosg”, "avar la vausg ô catuosg” “essere giù di morale”, “avere la voce rauca” etc.

“Ndulina” “allodola”; con lo stesso nome viene chiamata la Mantide religiosa, ma qui si tratta di una storpiatura del sic. Ndivina o Ndiminaglia, così chiamata perché i bambini credevano che l’insetto agitando le zampe anteriori desse risposte alle loro domande, oppure volesse tessere qualcosa.

“Chiempa” ‘bruco, camola’, nell’espressione “mardìsgir la chièmpa” “maledire la camola”. Capitava spesso che i bruchi invadessero le coltivazioni e i contadini impotenti ricorressero all’esorcista, non sappiamo con quali risultati, ma c’era chi giurava di aver visto le camole sparire. Il detto si riferisce a chi va in giro senza alcuna mèta: essir un chi mardìsg la chièmpa; oppure, quando è usato come risposta, ha il significato di non volere far sapere dove si è diretti: väch a mardìsgir la chièmpa “vado a maledire la camola”.

“Purter un a-la càua dû cavèu “portare uno (legato) alla coda del cavallo”. Era una berlina inflitta al condannato che, in catene e legato alla coda di un cavallo, veniva condotto in mezzo alla folla che lo derideva.

“Essir n bäbu a palòta” “Essere uno stupido a paletta”. Alcuni frutti di ficodindia si sviluppano dentro la ‘pala’ e sono ricercati perché dopo raccolti è possibile conservarli per l’inverno appendendoli ad un chiodo. Sono i cosiddetti ficadìgna a palòta. Si vuole indicare quindi una rarità anche applicata alla stupidaggine: uno stupido a palòta è duraturo nel tempo.

“Caffa” “coffa, nido” è una grossa sacca per il trasporto animale, ma è anche il nido degli uccelli. Una cattiva abitudine dei ragazzi era quella di prelevare gli uccellini dal nido, spesso implumi. Quando si attendeva che divenissero più grandi succedeva di trovare vuoto il nido perché nel frattempo i volatili erano andati via lasciando la coffa. L’espressine sanfratellana “der la caffa” “dare la coffa” ha significato ironico e si riferisce al rifiuto ottenuto da qualche pretendente da parte della ragazza alla quale aveva fatto la proposta di matrimonio.



Pälauastära è una deformazione di balausträra ‘balaustrata”. La chiesa di San Nicolò, prima della frana del 1922, aveva un ampio sagrato circondato da una lunga balaustrata, sormontata ad intervalli regolari da mezzibusti, in marmo, di personaggi illustri. Essir n pup di la pälauastära ‘essere un pupo della balaustrata” è un’espressione negativa e allude a un individuo senza personalità, che può essere facilmente pilotato. Ogni tanto una di queste statue spariva per essere successivamente ritrovata dietro la porta di casa di qualche bella fanciulla che non aveva accettato il fidanzamento con un giovane del paese.

“Näna” “nonna, diarrea”, nell’epressione “pumadamaur cu la näna” ‘pomidori con la diarrea’. In genere i sanfratellani hanno mangiato la frutta e le verdure dei loro orti e solo nei periodi di maturazione collinare. I venditori ambulanti provenienti dalle zone marittime portavano le loro primizie e nel caso dei pomodori li offrivano a voce alta, in siciliano, per le strade come “pummadoru senza nana!” I bambini chiedevano alle mamme di acquistarli, ma queste ne scoraggiavano la consumazione adducendo giustificazioni diarroiche a causa del concime chimico che veniva usato per produrli.

“Mbruoghja” “imbroglia (verbo ind. pres. s.), ciarpame”; quando ci si riferisce a .qualcosa di cui non si vuol dire il nome, si parla di “mbruoghja”.

“Sfascider” “tirare fuori dalla fiscella, vuotare”, questo verbo viene usato anche come sinonimo di “vuotare il sacco” senza esserne richiesto, non saper tenere un segreto.

“Accianter mieuzzi” “piantare milze” è sinonimo di dare ceffoni; la milza era un copricapo in uso fino ai primi del Novecento ed aveva la caratteristica di cadere sopra un orecchio, quasi a voler accarezzare il collo, sinonimo quindi di una sonora “scarza di cadd” “scorza di collo”. L’aggiornamento dell’espressione seguì la moda che introdusse largamente l’utilizzo della coppola, così dare una “scapula” ‘scoppola’ rende bene l’idea di un ceffone così forte da far volar via il copricapo.

“Cilestri” “celesti”, nell’espressione “purter un a li cilestri” “portare uno al settimo cielo”, vantare. Il termine è riscontrabile nella visione medievale del Paradiso e nelle etichette messe sui registri degli organi antichi per indicare il suono argentino, celestiale.


“Pässavulant” “passavolando”, sono dolci a forma di cuore o di “S”, di pasta di mandorle ricoperti di glassa e decorati con motivi floreali che vengono serviti nei matrimoni insieme alle cosiddette “gnuchietuli”, anche queste di pasta di mandorle, a forma di “S”, ma di colore scuro. Il nome “pässavulant” potrebbe riferirsi alle istruzioni date a chi in passato serviva questi dolci nei matrimoni i cui ricevimenti si svolgevano nelle case private affinché non si soffermassero troppo, col duplice intento di fare presto e di impedire che gli invitati ne prendessero più di uno.

“Fighj di scècca” “figlio di asina”. L’incrocio tra un asino ed una cavalla origina il mulo. Invece l’accoppiamento di un cavallo con un'asina produce il bardotto, che conserva un'indole asinina, notoriamente autonoma e refrattaria al punto di essere considerato fèuzz 'falso' perché spesso recalcitra. Per trasposizione dare del “fighj di scècca a uno è offensivo perchè equivale ad essere un individuo inaffidabile.

“Dighj chi i chiei son attachiei” ‘digli che i cani sono legati’. È un invito in codice: si vuole far sapere alla persona alla quale il detto dovrà essere riportato, che è attesa con ansia.

“Mottir la narta” ”mettere il soprannome”, potrebbe essere una fusione di nam+ sciarta ‘nome e sorte’ (nomen omen).

“Dumiera piguriera” “lucciola”, lume del pecoraio.

“Amartacanàli” ‘spegnicandele’. Erba dall’odore disgustevole; si dice che venisse usata nei granai per tenere lontani i panaruoi ‘punteruoli’.

“Nualzänt” ‘cantastorie’; chi racconta storie, chi parla troppo. Tucc i nualzänt arrivu zzea ‘tutti coloro che portano notizie arrivano qui’.

“Arplacchja” (dal sic. aprilocchi) “cardo benedetto” (bot.: “cnicus benedictus”), erba che produce alla sommità uno stelo munito di spine. Il nome è un invito a prestare attenzione perchè punge e riferito a persone che sono sempre pronte ad offendere.

“Buvrèg” “mancia”; nell’espressione se l pàrti àntra t däcch u buvrègg “se le porti a casa [le botte], ti do la mancia” significa che devi difenderti, altrimenti a casa prenderai le altre. Un sistema educativo basato sulla difesa.

“Sfiler” “sfilare, misurare; nell’espressione sfiler u pè significa curare le orme lasciate da un animale scappato via. Sfiler u camìan ‘seguire le orme’.

“Bannier” ‘bandire, annunciare’. Bannier li festi ‘annunciare le festività’, avviene il giorno dell’Epifania in cui il sacerdote annuncia i giorni in cui cadono le festività religiose dell’anno liturgico.

“Panuttian di San Giusepp” “pagnottina di San Giuseppe” è il seme della malva e in genere dell’altea, così chiamato per la sua forma piatta divisa in spicchi.

“Nfurrer” “foderare”, in sanfratellano è un termine parente del francese “fourrer” e significa “andare a sbattere” contro qualcosa.

Non mancano nella cultura sanfratellana ascendenti medievali della sottomissione della donna all’uomo. Li troviamo in alcuni proverbi e modi di dire, come ad esempio:


“D’am apparànta cû re e la fòmna cû chièn” “L’uomo sia simile al re e la donna al cane”. Questo detto ha radici molto antiche e v’è rapporto di sudditanza della donna all’uomo. Il riferimento è quello della peculiare qualità del cane che è la fedeltà; per contro all’uomo è richiesto di comportarsi come un re, che è personificazione di onestà, di protezione, di potenza. Sotto questo aspetto troviamo riferimento anche alla letteratura cavalleresca.

“Nutära pèrsa e fìghja fòmna” “Nottata persa e figlia femmina”. Dove la poca considerazione verso la donna diventa più esplicita.


“Fièji sòcchi e fìghji fòmni, u prim prièzz è ièngiu” “Fichi secchi e figlie femmine, il primo prezzo è angelo”. Una delle risorse dell’economia sanfratellana legata all’agricoltura era la coltivazione e la lavorazione dei fichi. Il prodotto veniva immesso sul mercato che spesso continuava ad essere in rialzo; ma è capitato, in attesa di spuntare un buon prezzo, che quintali di fichi siano rimasti invenduti e destinati a cibo per gli animali. La sorte dei fichi è stata riservata anche alle figlie femmine. Andavano concesse senza esitazione al primo che ne chiedeva la mano per paura che in attesa di un buon partito rimanessero in casa.

“mija tu” è la contrazione del sic. “miatu tu” “beato tu”. Nel proverbio “N grèan di chièrta, mija di chi la nzèrta” “un grano di carta, beato chi la indovina”, si tratta della carta con la quale è fatto il certificato di matrimonio, e quanto la sua riuscita sia legata alla fortuna.

[Convegno sul galloitalico - 10 agosto, San Fratello - intervento del prof. Benedetto Di Pietro]

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