San Fratello città galloitalica di Sicilia

Non perdere il patrimonio linguistico di San Fratello è una scommessa che molti autori locali provano a vincere.

di Carmelo Emanuele.
L'ultima opera pubblicata dagli autori Benedetto Di Pietro e Benedetto Iraci, "Sbughjann nta li paradi", ed. Montedit, un'autentico viaggio in galloitalico nella memoria contadina di San Fratello, mette sotto i riflettori ancora una volta la singolare parlata del centro nebroideo, antico e attualissimo vernacolo utilizzato dagli abitanti, ma che rischia di scomparire nei prossimi decenni.

L'ultimo libro è l'ennesimo bagliore di luce nel tunnel dell'oblio, ultimo di una serie di pubblicazioni che danno grande merito a tutti i diversi autori che si sono cimentati con passione in questo delicatissimo lavoro di ricerca storico-linguistica, avviato soprattutto nell'ultimo ventennio riscoprendo il dialetto di San Fratello in versione scritta (le poche opere esistenti risalivano all'800 e ai primi del '900), aprendo davvero le porte al galloitalico all'interno delle università italiane, altresì pubblicando diversi volumi col principale scopo di non disperdere il patrimonio linguistico, e allo stesso tempo provare a ridare lustro al vernacolo.
   
Salvare questo dialetto dall'estinzione è cosa ardua, poiché il riconoscimento di minoranza linguistica si scontra con la burocrazia e con interessi politici anomali; i progetti di salvaguardia del galloitalico non incidono molto nelle nuove generazioni; e (dulcis in fundo!) le nuove famiglie spinte da una quasi forzata globalizzazione verso la lingua italiana, tendono sempre meno a trasmettere il codice ai figli, ignorando la storia locale e tutte le raccomandazioni psico-pedagogiche contemporanee, che raccomandano ai giovani l'utilizzo di più codici di comunicazione per sviluppare meglio il pensiero cognitivo. 

Alla domanda posta in particolare ai cittadini che parlano il galloitalico ma hanno da tempo rinunciato a trasmetterlo ai figli: "Perchè ti rivolgi e costringi i tuoi figli ad utilizzare solo l'italiano?", in molti rispondono: "Così i miei figli vanno meglio a scuola...o (ancora peggio) non devono vergognarsi di non saper parlare in italiano" ...(permettetemi) nulla di più ignorante!

Molti studi a riguardo, infatti, chiariscono la posizione dei professionisti in merito all'insegnamento delle lingue locali insieme alla lingua nazionale. Tutti gli studiosi sono concordi nell'affermare i benefici dell'insegnamento del dialetto alla pari della lingua italiana (quest'ultima verrà appresa bene a scuola). Dopo una prima fase di confusione (soprattutto nel periodo pre-scolastico e nei primi anni della scuola primaria) il bambino svilupperà col tempo delle capacità linguistiche e cognitive superiori alla media. Quindi, l'insegnamento del bilinguismo (italiano-dialetto) è fortemente raccomandato...inoltre questa capacità doppia di lettura-comunicazione (tipica in paesi come la Svizzera) non sarà un ostacolo all'insegnamento di altre lingue straniere, piuttosto un consolidato aiuto, pensiamo per i sanfratellani all'apprendimento del latino e del francese. 


In conclusione il bilinguismo è un vantaggio, non un ostacolo, ma un aiuto costante all'apprendimento, e i Sanfratellani che hanno pure il privilegio di possedere tre lingue (sanfratellano, siciliano locale e italiano) spesso rinunciano a questi benefici, ignorando una storia ancora in parte da scoprire, rendendosi anche i principali colpevoli della scomparsa del galloitalico. 

Per ricordare la nostra discendenza storica, ecco alcune citazioni di importanti personaggi storici.      

San Fratello, già San Filadelfo, sopra questa, quasi a un mezzo miglio di distanza, c'è il castello di San Filadelfio, che è nome nuovo, datogli dai Longobardi, come si deduce dalla lingua della popolazione. I quali non so se vennero in Sicilia con Ruggero conte normanno dell'isola, o in qualsiasi altro tempo, su questo non ho certezza. (Tommaso Fazello, storico e teologo italiano, 1498 - 1570)


Vi è il castello de San Filadelfo, habitato da Longobardi, ch'ancora cosi favellano. (Giuseppe Carnevale, giurista a storico italiano del ‘500)

Fra tutte le colonie lombarde, quella che ha più mantenuto costumi e lingua è stata San Fratello, San Filadelfio in origine, costruita sul cocuzzolo di una montagna di 700 metri, vicina all'antica città siculo-greca Apollonia e quindi bizantina Demena (da cui prese il nome il Valdemone).
Costruito, San Fratello, nell'Alto Medio Evo, dalle truppe mercenarie raccolte nella Valle Padana (ma questo non bisogna farlo sapere a Bossi) da Ruggero il Normanno per la riconquista. Queste truppe di mercenari si erano stabilite in Sicilia formando le cosiddette colonie lombarde (Nicosia, Aidone, Piazza Armerina, Francavilla, Novara di Sicilia e San Fratello, appunto). Colonie chiuse che hanno conservato le loro tradizioni lombarde, i loro costumi e, soprattutto, la loro lingua, il gallo italico o mediolatino. San Fratello è stata la più tipica e la più chiusa di queste colonie. Paese di pastori, di carbonai e di contadini, che aveva la sua ragione di vita nel ricco bosco adiacente al paese, il bosco della Miraglia, che fa parte del Parco dei Nebrodi, ricco di faggi, cerri, querce. La fine del mondo contadino degli anni Cinquanta, Sessanta, ha fatto crollare l'economia di San Fratello e costretto molti dei suoi abitanti ad emigrare. Emigrare dove? In Lombardia naturalmente, come in una sorta di richiamo ancestrale. C'è stata una trafila migratoria in Val Ceresio, nei paesi soprattutto di Saltrio e Viggiù.

Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un'isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella stessa particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia. (Vincenzo Consolo, 1933 – 2012, scrittore, giornalista e saggista italiano)

E sarà magari una suggestione che viene in parte dal dialetto (irto di consonanti e con due, tre o addirittura quattro vocali di seguito, e ciascuna con un suono distinto): ma i poeti di San Fratello o di Nicosia più fanno pensare al Porta che al Meli.
Un canto come quello che un poeta di San Fratello scrisse in morte di un mafioso, è impossibile trovarlo nella poesia siciliana. Bisogna arrivare a Ignazio Buttitta, cioè a un poeta dei giorni nostri, per trovare tanto coraggio civile. Il poeta di San Fratello ne aveva già nel secolo scorso: e non si creda che attaccare un mafioso morto comportasse meno rischio che attaccarlo da vivo.
Le interpretazioni che si danno di questa tradizione, da parte di studiosi del folklore, sono, per così dire, interne: riconoscono cioè un ruolo non del tutto eterodosso ai "giudei" di San Fratello rispetto alla liturgia cattolica. I Giudei sono gli uccisori di Cristo: perciò, nella rappresentazione della passione di Cristo, nelle ore in cui Cristo viene condannato e crocifisso, essi demoniacamente si scatenano, fanno carnevale. E ritengono, gli studiosi, che in definitiva si tratti appunto di un confluire del carnevale nella Pasqua cristiana. Ma si dovrebbe anche tener conto del fatto che a travestirsi da "giudei" sono i contadini, e i pastori, e che per l'occasione, sotto quel travestimento, in passato più che attualmente, venivano a godere di certi privilegi, di certe libertà. La parte più conculcata, più oppressa, più misera della popolazione di San Fratello, mettendosi per quel giorno nel ruolo di un popolo non meno oppresso e perseguitato, si levava a beffeggiare, a insultare, a colpire; e ad irridere al sacrificio della croce. (Leonardo Sciascia, 1921 – 1989, scrittore, saggista, giornalista, politico, poeta, sceneggiatore e drammaturgo italiano)


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