Da
troppo tempo la crisi economico-finanziaria che ha attanagliato l’Italia, oltre
che altre regioni europee, si è scaricata sulle famiglie e sugli Enti Locali
che sono l’avamposto riconosciuto dai cittadini come unico interlocutore dei
bisogni e delle esigenze del territorio.
Tutto
questo prevede una capacità di spesa e di autonomia che invece sono state
mortificate negli anni sia dallo Stato sia dalla Regione.
Il
Patto di Stabilità ha posto ai comuni dei seri vincoli non solo alle finanze ma
anche alla capacità di programmare la spesa, di disegnare lo sviluppo, di
garantire i servizi essenziali e perfino quelli obbligatori; condizione
aggravata da nuovi servizi che lo Stato dispone nei confronti dei comuni (spese
giudiziarie, ricoveri e assistenza immigrati), senza alcun efficace contributo
economico, anzi con nuovi tagli, ad esempio nelle spese di gestione per il
funzionamento dei tribunali.
I
tagli sono stati determinati senza tenere conto delle necessità che incombono
sui comuni, tenendo un distacco evidente sotto il profilo istituzionale ed
anche razionale. Le risorse drasticamente tagliate riguardano, infatti,
l’assistenza verso i diversamente abili, gli indigenti, gli anziani, i minori
in difficoltà, la mensa scolastica, il trasporto urbano, le scuole, gli asili
nido, ecc…
Come
se non fosse sufficiente, la riduzione dei servizi sopra citati è inoltre
accompagnata da un incremento considerevole della pressione fiscale
determinando nei cittadini-utenti una condizione di grave disagio sempre
crescente che sfocia in diminuzione o mancanza di affidabilità e fiducia nei
confronti dei comuni e dei loro rappresentanti.
Se lo
Stato ha abbattuto la mannaia sui comuni, la Regione ha contribuito con i
propri tagli e soprattutto con una politica complessiva che ha privato la
Sicilia d’investimenti significativi che avrebbero determinato una ricaduta
immediata in termini di sostegno alle imprese, di creazione di nuovi posti di
lavoro e una maggiore capacità di contribuzione tributaria.
Intanto,
dal punto di vista della c.d. spending review i comuni intervengono in maniera
efficace riducendo le spese, riorganizzando i servizi al limite del collasso,
riducendo drasticamente gli investimenti, eliminando i debiti.
Considerando
pari a 100 la spesa pubblica nazionale, i comuni italiani sommano poco meno del
7% la loro spesa complessiva e considerando pari a 100 il debito pubblico
nazionale, i comuni detengono poco più del 2% per cento del debito nazionale.
Che
altro devono tagliare?
Le
spese dei comuni servono a garantire ai cittadini le scuole, l’assistenza ai
disabili, agli anziani, la manutenzione delle strade, i trasporti, le attività
culturali…
A
proposito degli investimenti, vale appena la pena di ricordare che i comuni non
sono raider speculativi, ma investono in strade, parchi gioco, scuole, impianti
energetici…
Eppure,
se teniamo a 100 la riduzione delle spese nazionali, i comuni italiani hanno
sopportato ben il 70% dell’intera spending review, lasciando che il restante
30% lo dividesse lo Stato con i suoi ministeri, le sue agenzie, i suoi
comitati, le sue strutture, e poi le regioni con i loro assessorati, con le
loro partecipate…
Insomma
la spending review assomiglia più a una punizione per i comuni e per i
cittadini che non a una strategia per la rinascita del Paese.
Ovviamente
se i dati nazionali, economici e sociali, sono seriamente preoccupanti, quelli
del Meridione d’Italia e della Sicilia in particolare risultano drammatici. Le
percentuali di disoccupazione in generale, e poi giovanile e femminile, segnano
cifre preoccupanti, l’impoverimento del territorio ha determinato un
allargamento della fascia sociale che coinvolge perfino chi un lavoro ce l’ha;
i bambini siciliani che vivono sotto la soglia di povertà sono oggi più di
40.000 e il numero è destinato a crescere.
Il
saldo di vitalità delle imprese segna un saldo negativo con incremento di
licenziamenti; il bisogno di “sopravvivenza” determina l’aumento della
microcriminalità che, come conseguenza, accompagna il reclutamento verso la
carriera criminale e la mafia.
In
questo circolo improduttivo chi paga le conseguenze più amare sono i territori
che, per scelte che si appartengono alla storia della Sicilia, erano già in
condizioni di svantaggio economico e sociale, poiché posti ai margini della
Sicilia produttiva; in particolare le zone dell’entroterra siciliano e le aree
costiere decentrate rispetto alle grandi città di riviera.
Tutto
questo non aiuta a fare uscire l’Italia fuori dalla crisi. Crisi che diventa
istituzionale e politica, oltre che economica, nel momento in cui il
legislatore, soprattutto regionale, contribuisce ad allontanare i comuni dalla
partecipazione attiva alla formulazione di norme che hanno una ricaduta
immediata sui territori e soprattutto sulle istituzioni.
Il
recente tentativo di “scuotere” la Sicilia con l’abolizione delle province e la
creazione di Liberi Consorzi dei Comuni, si è reso concreto con una norma che
palesa per i comuni diversi limiti di autonomia decisionale, soprattutto
considerando che la legge approvata dall’ARS l’11 marzo 2014, non prevede le
funzioni che i Liberi Consorzi dovranno avere.
Il
comma 1 dell’art. 10 Funzioni dei liberi Consorzi e delle Città metropolitane,
prevede, infatti, che “ I liberi Consorzi e le Città metropolitane esercitano
funzioni di coordinamento, pianificazione, programmazione e controllo in
materia territoriale, ambientale, di trasporti e di sviluppo economico.” e il
comma 1 dello stesso articolo prevedono che con successiva legge istitutiva
saranno ridefinite le funzioni da attribuire ai liberi Consorzi.
Si
chiede quindi ai Consigli Comunali di esprimersi sulla partecipazione ai liberi
Consorzi e ai cittadini di confermare con un referendum eventuali scelte di
adesioni ad altri consorzi, ma non si accenna alle motivazioni che
determinerebbero di scegliere un consorzio piuttosto che un altro.
La
legge contiene dunque un “vuoto culturale” oltre che una carenza normativa che,
come per altri aspetti già citati, si abbatte maggiormente sui comuni
periferici che vedono nella riorganizzazione istituzionale dell’Isola una
scommessa possibile, orientata verso lo sviluppo di quei territori troppo
spesso dimenticati dalle scelte politiche regionali e perfino provinciali.
Tra i
territori che hanno maggiormente risentito di scelte politiche inique, resi
periferici da una visione accentratrice dello sviluppo regionale, isolati anche
sotto l’aspetto viario oltre che economico e perfino di rappresentanza
democratica, quest’ultima orientata sempre più verso le grandi città siciliane,
stanno le aree delle zone interne siciliane delle Madonie, i Nebrodi e
dell’ennese fino a raggiungere la periferia più estrema del calatino. Seppur
rivierasche, rientrano in condizioni di disagio anche i comuni di confine tra
le due grandi province di Messina e Palermo, strette dalla forza attrattiva di
rinomati luoghi turistici, punti di forza dell’economia di quell’area.
Fare
un elenco dei comuni di questa vasta area significa determinare un’idea di
possibile riscatto economico e sociale delle rispettive Comunità.
Ognuno
di questi comuni rappresenta le stesse difficoltà di un altro, gli stessi punti
di debolezza ma anche gli stessi punti di forza; le stesse speranze, le stesse
esigenze di riscatto e, perché no, gli stessi sogni.
Acquedolci,
Agira, Aidone, Assoro, Barrafranca, Calascibetta, Capizzi, Caronia, Castel di
Iudica, Castel di Lucio, Catenanuova, Centuripe, Cerami, Cesarò, Enna, Gagliano
Castelferrato, Gangi, Geraci, Leonforte, Mirabella Imbaccari, Mistretta, Motta
d’Affermo, Nicosia, Nissoria, Pettineo, Piazza Armerina, Pietraperzia, Pollina,
Raddusa, Regalbuto, Reitano, San Cono, San Fratello, San Mauro Castelverde, San
Michele di Ganzaria, San Teodoro, Santo Stefano di Camastra, Sperlinga, Troina,
Tusa, Valguarnera Caropepe, Villarosa.
Quaranta
realtà, alcune assolutamente simili altre con peculiarità uniche, che non sono
mai state pienamente valorizzate da una strategia politica assolutamente
centripeta perpetrata dalle città più influenti.
L’infinito
ritardo della realizzazione della Nord Sud, l’eliminazione dei tribunali di
Nicosia e Mistretta, la mancata attivazione del Distretto Sanitario dei
Nebrodi, la mancanza di un “Porto del Tirreno”, il trasferimento della Banca
d’Italia da Enna, la chiusura di uffici come Enel, Telecom, Siciliana Gas, in tutto
il territorio, l’esclusione di queste aree dalla programmazione dei circuiti
turistici, e perfino l’intromissione negativa della Regione alle trattative per
la realizzazione dell’Aeroporto Intercontinentale a valle di Centuripe,
continua a determinare un impoverimento delle Comunità che i Comuni, dai
Sindaci a ogni Consigliere comunale, ha il dovere di contrastare.
Le
cause di debolezza di tutti questi comuni non sono ovviamente solo i punti
sopra elencati che, in realtà, appaiono più come effetti che non come causa,
poiché questa risiede originariamente nella scarsa capacità contrattuale che
queste realtà pongono alle interlocuzioni più complessivamente.
Siano
interlocutori lo Stato o la Regione o la stessa provincia di appartenenza;
siano
interlocutori le grandi imprese industriali o semplicemente i comuni più
grandi;
in
ogni caso un comune di pochi abitanti, confinato in una zona considerata
residuale dell’Isola, con un reddito pro-capite basso, alto indice di
disoccupazione e di emigrazione, lontano dalle realtà universitarie e di
ricerca, mantiene un potere contrattuale di scarsa importanza e tende a
rifugiarsi sotto l’ombrello protettivo di un patron, di solito politico, che
protegge, quando può, il territorio da evidenti ingiustizie siano politiche,
economiche, sociali o istituzionali.
È
necessario ridare orgoglio alle Comunità amministrate e coraggio agli
amministratori, trasformando in forza i punti di debolezza, liberando le
potenzialità delle aree interessate per uno sviluppo possibile e sostenibile,
per una rinascita di ogni comune, in sincronia col territorio di competenza e
con l’intera Regione.
L’omogeneità
territoriale, culturale, antropologica di questi comuni deve diventare
l’elemento unificante e vincente di una nuova politica regionale che abbia
rispetto di queste Comunità. Una politica che supporti e non sopporti le
richieste legittime che sono poste sul tavolo delle scelte decisionali.
Il
privilegio delle piccole comunità deve fare posto alla debolezza dell’essere
piccolo. Rapporti interpersonali più immediati e facili, incentrati sulla
velocità di comunicazione e sulla forza della correttezza, della legalità, del
controllo del territorio, per affrontare e risolvere le questioni che la
Comunità pone.
L’opportunità
di rafforzare il territorio ennese da troppo tempo sottoposto a tentativi
esterni di disgregazione e protettorato, l’occasione di spostare la centralità
del territorio verso nord; la possibilità di dare ai territori, dalle
“montagne” al mare, una giusta rappresentanza autorevole ed endogena, non più
occasionale ma permanente; l’opportunità di creare un turismo interno al
territorio che si muova sull’asse montagna/mare, di avere una porzione di costa
dedicata a una nuova rinascita complessiva dell’Isola, attrezzata ed
efficiente, potenziata da strutture innovative affidate alla formazione e alla
ricerca universitaria;
Tutto
questo significa un aumento della forza contrattuale per ogni singolo comune e
quindi per il territorio dell’area.
Lavorare
per rafforzare ogni comune, per rafforzare questo territorio non significa
farlo a discapito di altre aree siciliane, poiché la crescita di quest’area
serve anche a dare un altro aiuto alla Sicilia intera.
L’occasione
che offre la Legge sui Liberi Consorzi, con tutti i suoi limiti, deve essere
colta nella sua essenza più ampia, con un’assunzione di responsabilità che deve
andare oltre gli atteggiamenti classici che risiedono nelle preoccupazioni del
cambiamento.
Occorre
cogliere l’occasione che il legislatore regionale ha offerto per rideterminare
le sorti di questa porzione di Sicilia, ridisegnando i confini di un territorio
che vuole essere più forte, che sia più omogeneo, più capace di determinare il
proprio futuro, che offra più garanzia ai propri giovani.
Un
territorio che sia più solidale, più ricco, che sappia unire piuttosto che
dividere, che aggreghi, che produca, che offra opportunità.
Dare
forza ai comuni, insomma, ridare alle loro Comunità l’orgoglio del riscatto
sociale, della rinascita, utilizzando al meglio le possibilità che offre la
legge sui Liberi Consorzi, diventa quasi un imperativo. Un’occasione unica.
Nei
limiti del dettato normativo, la Legge Regionale sull’Istituzione dei Liberi
Consorzi, proprio per i limiti che detiene, favorisce l’aggregazione e quindi
il rafforzamento di questi comuni più che la loro disgregazione.
Il
primo comma dell’articolo 12 della legge limita la costituzione di nuovi Liberi
Consorzi, alla continuità territoriale oltre che al residuo di almeno 150.000
abitanti nei consorzi, attualmente provincie, di provenienza, mentre la let.b,
c.1, art.2. Impone almeno 180.000 abitanti per i costituendi nuovi Consorzi.
In
considerazione del fatto che l’art.1 dispone che l’ex provincia Regionale di
Enna diventa in automatico Libero Consorzio, l’unione dei comuni vicini è
immediatamente possibile nel pieno rispetto della norma.
Questo
documento rappresenta il primo atto ufficiale e congiunto che i sindaci delle
città firmano come attestato di amicizia, reciprocità e collaborazione dei
comuni verso un unico Libero Consorzio.
Ovviamente
l’argomento sarà motivo di ampio dibattito dei Consigli Comunali e delle
Comunità interessate, e l’adesione al documento rappresenta esclusivamente la
volontà dei Sindaci firmatari a invitare al dibattito e non certo quella di
assumersi la responsabilità di una scelta che, si ripete e si sottolinea,
appartiene ai Consigli Comunali e alla Comunità, anche in considerazione
dell’atto deliberativo di CC e del successivo referendum previsti nella legge. [fonte: ViviEnna]
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