Anniversario della scomparsa di San Benedetto il Moro, compatrono di Palermo


IL SANTO DI SAN FRATELLO
Il 24 aprile 1652 il Senato Palermitano lo proclamò compatrono e intercessore della città, impegnandosi a recarsi ogni anno nell'anniversario della sua morte in pellegrinaggio al suo sepolcro portando quattro grossi ceri.

Miranda Pampinella.
Il 4 aprile del 1589 San Benedetto il Moro, compatrono di Palermo insieme a Santa Rosalia, si spense, e il suo culto si diffuse dalla Sicilia fino in Italia, in Spagna, nel resto dell'Europa e dell'America del Sud, dove divenne anche il protettore delle popolazioni nere. Un sepolcro in vetro custodisce le spoglie non del tutto corrotte  di San Benedetto, che si trovano nella chiesa del convento di Santa Maria di Gesù.
Ma chi era San Benedetto? Un santo umile che con la sua vita incarnò perfettamente l’ideale francescana, diventando l’emblema di una vita santa che non conosce la razza o il colore della pelle quando è piena dell’amore per Cristo. Un frate africano addetto ai lavori umili del convento e per giunta analfabeta. Non sapeva leggere né scrivere e tuttavia nei suoi 63 anni di vita fu consigliere di nobili e potenti, amico dei poveri e degli umili, seppe confortare i diseredati ed istruire nelle sacre scritture dotti e teologi. Moltissimi i devoti che si recavano da lui per consultarlo, fra i quali anche sacerdoti e teologi e perfino il viceré di Sicilia, Marcantonio Colonna del quale aveva miracolosamente guarito la moglie Donna Felice Orsini. I processi della sua canonizzazione riferiscono di numerose guarigioni miracolose operate da lui in nome di Gesù e, dopo più di 400 anni, Benedetto vive ancora nel cuore della gente.
Nasce nella città di San Fratello, diocesi di Messina, nell’anno 1524 da Diana Larcarie Cristoforo Manasseri, discendenti da schiavi negri provenienti dall'Africa, rapiti da mercanti europei e venduti nel nostro porto a Vincenzo Manasseri, ricco proprietario terriero di San Fratello. Non era un bambino come tutti gi altri. Non solo perché sarebbe diventato un grande santo, ma ancor più perché era “nero”, figlio di neri africani, figlio di schiavi comprati da mercanti senza scrupoli che barattavano i loro prodotti con mercanzia umana.
Gli schiavi non avevano identità propria, per lo più assumevano il cognome del loro padrone che aveva diritto di vita e di morte sui suoi “averi” e spesso li faceva sposare tra loro, ma in realtà si trattava di accoppiamento, perché i piccoli neri rendevano parecchio se venduti.
Vincenzo Manasseri non doveva essere un cattivo padrone e tuttavia anche lui sperava di investire sui suoi schiavi. Per questo aveva acconsentito che Cristoforo sposasse Diana Larcari, una donna nera forse affrancata dal suo padrone. Tuttavia la coppia pare che non accontentasse il padrone per via di una scelta di castità cristiana degli sposi. Per questo il padrone promise di dare la libertà al primogenito, se avessero deciso di avere figli. E così fu: il primo figlio, Benedetto, nacque libero sin dalla nascita. Dopo di lui seguirono un fratello e due sorelle, di cui si conosce ben poco. Vincenzo Manasseri era stato comunque accontentato. Secondo le testimonianze dell’epoca, Benedetto crebbe in un clima di spiritualità che favorì la sua educazione e gli diede una impronta particolare che lo avrebbe distinto dal comportamento dei giovani contemporanei sin da quando era piccolo. Essendo libero egli doveva provvedere al proprio sostentamento, infatti spesso lavorava nei campi con due buoi che era riuscito a comprare con tanti sacrifici. È in una di queste occasioni, nei poderi, durante la mietitura, che avviene un incontro che gli segnerà l’esistenza: quello con frate Gerolamo Lanza, ex cavaliere ritiratosi prima in convento e poi in eremitaggio nelle montagne intorno a Caronia a pochi chilometri da San Fratello. Proprio questo Lanza, difendendo il giovane Benedetto dagli scherni dei compagni di lavoro, ne profetizzò una fama insospettabile. Fatto sta che da lì a poco, ancora ventenne, Benedetto, venduti i buoi e distribuitone il ricavato tra i pove­ri, decise di seguire Gerolamo nella vita eremitica.
Una vita fatta di preghiera, digiuni e penitenze, nella quale si distinse su tutti gli altri tanto che la sua fama cominciò a spargersi nei paesi vicini e sempre più gente accorreva al frate per chiedere consigli, ricevere benedizioni e invocare miracoli. Fama che non si addiceva con la vita eremitica del gruppo, così tutti insieme i frati furono costretti a trasferirsi di eremo in eremo, ora vicino Raffadali nell’agrigentino, ora nelle grotte della Mancusa, tra Carini e Partinico, ora sul selvaggio monte Pellegrino nei pressi di Palermo, dove, con la morte di Gerolamo, gli vengono affidate le redini della compagnia.
Dopo circa diciotto anni da quando Benedetto era entrato nella vita eremitica, nel 1562, il papa Pio IV ordinò che la congregazione dei frati detti “del Lanza” fosse sciolta: dovevano lasciare la vita eremitica e abbracciare una delle famiglie religiose approvate. Benedetto già pensava di entrare a far parte dell’Ordine dei Cappuccini, ma mentre pregava nella cattedrale di Palermo, per tre volte ricevette un segnale celeste da cui capì di essere chiamato in quello dei Frati Minori di San Francesco.
Venne accolto nel convento palermitano di Santa Maria di Gesù, alle pendici del monte Grifone, e inserito nel gruppo dei frati laici di quell’Ordine, e trasferito nel convento di Sant’Anna a Giuliana, dove rimase tre an­ni conducendo vita solitaria. Tornò a Palermo, intorno al 1565, dove trascorse il re­sto della vita tra preghiera e meditazione. Interrompeva la preghiera o qualsiasi al­tra occupazione al suono dei tre rintocchi della campanella del frate portinaio, solo allora si affrettava ad accogliere tutte le persone che in gran numero desideravano parlargli. Le cronache e le testimonianze riferiscono anche moltissimi miracoli riconosciuti al frate nero.
La procedura per la canonizzazione di Benedetto il Moro era stata avviata subito dopo la sua morte sin dal 1594 e ripresa nel 1622. Il processo si tenne nel 1625 ma si interruppe, bloccato da una normativa di Urbano VIII sopraggiunta proprio in quegli anni. Il popolo, comunque, con la tolleranza e talvolta con l’incoraggiamento dei vescovi, continuò a venerare Benedetto come santo. Il 24 aprile 1652 il Senato Palermitano lo proclamò compatrono e intercessore della città, impegnandosi a recarsi ogni anno nell’anniversario della sua morte in pellegrinaggio al suo sepolcro portando quattro grossi ceri.
Il 15 maggio 1743 il papa Benedetto XIV lo proclamò beato. Negli anni successivi continuarono le richieste della canonizzazione, sicché nel 1777 fu riconosciuta dalla Congregazione dei Riti l’eroicità delle sue virtù, nel 1790 i due miracoli richiesti e finalmente il ventiquattro maggio 1807, solennità della santissima Trinità, il papa Pio VII con la Bolla  Civitatem Sanctam proclamò Benedetto Santo, il primo santo nero della storia.
Su Monte Grifone, Benedetto costruì una celletta dove si ritirava in contemplazione e proprio qui, per rispondere con immediatezza alla campanella che lo chiamava al convento, piantò il suo bastone. E dal bastone nacque un grande cipresso, che oggi dà ombra alla sua cella trasformata in cappella. E’ uno strano cipresso, dai rami che sembrano radici, ultracentenario e solitario, che la devozione dei francescani e dei devoti riconoscono come prodigioso ricordo di quella virtù singolare che distinse Benedetto.
Fonte: palermomania.it


Commenti