Il Galloitalico di San Fratello. Accumulo consonantico e linguaggio ellittico?



Può sorgere spontanea una domanda: la parlata sanfratellana è nata così o è stata resa volutamente di difficile comprensibilità? Non è possibile dare una risposta per almeno due ragioni:

a) noi non abbiamo registrazioni della parlata originale, intendo dire la parlata dei primi secoli in cui i coloni provenienti dall’alta Italia si sono insediati a San Fratello


b) perché non conosciamo i rapporti che la gente di San Fratello instaurò nel passato con i paesi vicini, ma che sicuramente non devono essere stati di totale apertura se fino ad una cinquantina di anni orsono gli abitanti delle campagne vicine, che parlavano la lingua siciliana, venivano chiamati dai sanfratellani “forestieri” e spesso venivano indicati come “marrani”, termine che nasconde nella sua storia un significato di disprezzo perché con esso, fino al sec. XVIII, gli Spagnoli indicarono i musulmani e gli ebrei convertiti al cristianesimo.


I sanfratellani sono sempre stati molto gelosi della loro parlata e per indicare la lingua siciliana usavano, con tono di ironia, l’espressione Pardèr a-la tänu “Parlare alla “tannu”. In dialetto siciliano tannu significa ‘allora’; l’espressione equivale al più moderno pardèr d’accussì “parlare così”; il termine siciliano “così” viene tradotto con “accussì” e si distingue da “accuscì” usato dai sanfratellani per indicarne l’appartenenza linguistica. I linguisti definiscono questo termine “shibboleth”, dall’ebraico “spiga, bandiera”.


È pensabile che trattandosi in origine di un avamposto militare si sia fatto uso di un linguaggio sintetico. Sicuramente, attraverso i secoli la parlata sanfratellana è diventata sempre più ellittica, facendo sparire delle vocali, e quando si è capito che con questo sistema da una parte ne beneficiava l’economia dialogica, in quanto nell’unità di tempo si potevano pronunciare più parole, e dall’altra il discorso diventava più incomprensibile per chi non apparteneva alla comunità sanfratellana, non si è fatto nulla per renderlo più esplicito, chiudendo così in uno scrigno la parlata e le sue tradizioni che sono sempre apparse come circondate da un’aria di mistero.


Una delle cause principali di questa chiusura è dovuta al fatto che non si sia fatto uso della scrittura; infatti questa avrebbe obbligato ogni scrivente a usare anche le vocali al fine di permettere la morfologia e la divisione sillabica avrebbe messo più chiarezza.

L’argomento è complesso e ci porterebbe a considerare due possibili opzioni: 

la prima che l’uso della scrittura ci avrebbe offerto pagine scritte sulle tradizioni sanfratellane e sulle loro evoluzioni nei secoli, ma con la possibile conclusione che la parlata sanfratellana sarebbe già scomparsa da tempo a causa della mancanza d’interesse per un dialetto del quale si sarebbe conosciuto tutto; 

la seconda, tramandarsi la parlata per via orale, obbligando i sanfratellani ad affidare alla trasmissione orale di tutte le informazioni legate alla loro cultura. Questo è ciò che si è verificato attraverso i secoli e che ha permesso al dialetto di arrivare fino a noi, con tutte le sue lacune, ma anche con la sua originalità.


Va detto che la mancanza di un sistema di scrittura, e in particolare di una scrittura fonologica, ha portato spesso i sanfratellani a usare le parole in base alla propria conoscenza, assimilandole spesso ad altre conosciute, e dando origine a storpiature importanti, tali da modificarne il significato. È il caso del termine italiano “balaustrata” (da balaustra) che dall’equivalente “balausträra” è diventata “pälauastära” che risulta composta dai termini “päla” e “uastära”, in italiano “pala” e “guasta”. 

[fonte: Convegno sul Galloitalico, intervento del prof. Benedetto Di Pietro]

Commenti