di
Salvatore Emanuele.
Dal quel fatidico e fatale andare a pezzi di San
Fratello, di anni ne sono ormai trascorsi tanti, quanti ne conta questo
enunciato. Io non c’ero ancora, ma la ricordanza di quanto avvenne in
quella fredda malanotte, raccontatami da
chi poi
mi portò alla luce è sempre viva.
Nacqui secondogenito ma
diventai «primo» ancor prima di nascere, poiché per colpa di quella maledetta
frana colui a cui sarei stato «germano secondo» non piacque rimanere in tanta
fragilità di cose e, s’involò verso lidi celestiali.
Nella mia memoria infantile rivivo le immagini
delle rimaste cose: intere o rabberciate dalla sconnessione prodotta dal
rotolar dei sassi delle avite magioni e dal rovinoso sprofondar della terra.
Nel desiderio di conoscenze del mio esser
fanciullo, via via che notavo infra le inanimate cose, sparse o conservate con
amore, chiedevo lumi:
- Mamma, a
cosa serve questa bilancia e questi tanti pesi e pesetti che vi stanno
intorno?
- Mamma, per
cosa servono questi rotoloni di stoffa colorata e con le gore?; E questa
stadera dal grande piatto e lungo braccio con appeso il “Romano”, a cosa ti
serviva ?
- Ed ella a
me con tanta mirabile pazienza e gli occhi inumiditi da una lacrima che le
scorreva sopra le guance, rispondeva:
- Figlio
mio, tu non puoi sapere quanti e quanti sacrifici ebbero a sopportare gli
invasi dalla catastrofe in quella tremenda e «nera» notte.
In casa nostra v’erano pochi e miseri mobili recuperati
dalle macerie: un cassettone d’antica fattura riparato nella sua struttura ma
avente in dotazione i cassetti originarli; una vecchia credenza ed una
vetrinetta ricostruita e rabberciata alla belle-meglio. Un’antico tavolo di
legno di ciliegio con apertura a libro, rimasto, miracolosamente, indenne in
tutte le sue parti, era ora corredato da sei seggie «francescane» con
seduta in refe che odoravano ancora di nuovo.
Tuttavia, da cosa nasce cosa, e quell’immane
flagello partorì una nuova comunità che venne ad aggiungersi a quel
ristrettissimo numero di poveri “cristi” che abitavano la “Vecchia Marina”
adiacente il Medievale Castello, con la torre fatta costruire dai baroni Larcan
per stare a guardia e difesa dei pirati che provenivano dal mare; da quel mare
d’intenso blu celestiale, ove l’azzurro del cielo vi si specchia interamente e
che a guardarlo dal «baluardo» Monte San Fratello appare come un incantesimo
che ammalia il visitatore che pone l’occhio a rimirare tanta beltade; e che
spaziando con uno solo sguardo, da Capo Cefalù a Capo d’Orlando, non perde di
vista la magnifica prospettiva che mostra l’orizzonte: l’incantamento
dell’immaginifico arcipelago costituito dalle, stupende sette «sorelle», Eolie.
Su di un dolce declivio sorsero nuove case
popolari, le nuove abitazioni per gli sfortunati abitatori del territorio
sfracellato. È qui ch’io vissi la mia prima infanzia; è di questi posti ch’io
ben ricordo, che per andare nella camera di sopra o al bagno, bisognava
superare l’altezza di due o tre gradini.
In questa nuova cittadina, sorta dalle macerie
dell’avita patria sanfratellana, ai diseredati, venivano assegnati
gratuitamente dei lotti di terreno, quale giusto indennizzo, a che vi
sorgessero le nuove abitazioni di proprietà.
I pirati, ora, non arrivavano più dal mare. I
filibustieri, gli sfruttatori, i profittatori, ora arrivavano dalla montagna.
La nuova Acquedolci venne sottoposta ai notabili sanfratellani rimasti indenni
dal disastroso evento, ed ebbe a patire: la loro non curanza, la loro
interessata caparbietà nel trarre profitto personale.
Ci vollero ben quarantasette anni prima che
la bella Acquedolci, non più “la Marina” come loro l’appellavano, riuscisse a
camminare con le proprie gambe — sebbene ancora mutilata nella eredità
economica.
Nel ricordare gli sfortunati abitanti di 92 anni
orsono non si devono dimenticare quelli che ancora in questo nuovo millennio
hanno avuto la malasorte di patire, sebbene meno triste, la frana del 14
febbraio 2010, la cosiddetta “Frana sanfratellana di San Valentino”.
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