CRONACA
L'assalto ai danni del presidente del Parco dei Nebrodi
Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ha ancora un colpevole. Ma a cercare il
responsabile, oltre alle forze dell'ordine, ci sono i boss.
Chi è stato? Anzi, per dirla con il dialetto usato dai
mafiosi: «Cu fu?». E stavolta a voler scoprire l’identità dell’autore
dell’attentato compiuto in provincia di Messina nel maggio dello scorso anno al
presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, uscitone illeso, non ci
sono soltanto carabinieri e polizia. Ci sono anche uomini delle cosche di Cosa
nostra.
Per raccontare la storia occorre fare un passo indietro. La notte del 18 maggio
Antoci, dopo aver partecipato a un convegno antimafia, torna verso casa a bordo
dell’automobile blindata con due poliziotti di scorta. La strada provinciale
che collega i paesi dei Nebrodi Cesarò e San Fratello è bloccata da
alcuni massi: la blindata si ferma e improvvisamente, stando al racconto dei
protagonisti, qualcuno spara dei colpi di fucile. I pallettoni sfondano la
lamiera nella parte bassa dello sportello posteriore dove Antoci è seduto. La
scorta risponde al fuoco ma, nel frattempo, sopraggiunge casualmente un’altra
automobile con a bordo il dirigente Daniele Manganaro del commissariato di Sant’Agata
di Militello e un altro agente. Sparano anche loro contro gli attentatori che
sarebbero fuggiti in mezzo alla campagna, coperti dal buio della notte.
«Il mio capo scorta mi ha immediatamente preso e messo sotto il sedile, si è
posto sopra di me, mentre continuavo a sentire gli spari» ha raccontato Antoci
agli investigatori il giorno dopo l’agguato. «L’autista ha fermato l’auto, è
sceso, ha aperto il fuoco e lo stesso ha fatto il mio capo scorta. Dietro
eravamo seguiti dalla vettura del dottor Manganaro, che pur non essendo
personale addetto alla mia scorta è arrivato, grazie a Dio, durante l’agguato.
È così che sono stato salvato. Erano almeno 5 o 6, e avevano molotov da
lanciare per scatenare un incendio nell’auto, costringerci a scendere e quindi
ucciderci».
Una ricostruzione dei fatti che anche il dirigente
del commissariato di Sant’Agata di Militello e gli altri agenti ribadiscono.
Loro, dopo aver ricevuto la gratitudine dello stesso Antoci, adesso sperano in
una promozione. Ma non è detto che arrivi.
L’inchiesta si rivela subito difficile per le forze dell’ordine che
sguinzagliano in tutte le direzioni i loro informatori. Ma da questi, a
distanza di tanti mesi e nonostante il grande sforzo investigativo riversato
sul territorio, non hanno avuto neanche una piccola traccia, un’ipotesi, un
sospetto. Niente di niente. Neanche gli esami del dna dal sangue rilevato
nel luogo dell’attentato, e che si presume possa appartenere a uno degli
assalitori, hanno permesso di risalire all’identità di chi ha sparato e quindi
al movente.
Le inchieste sulle cosche mafiose fanno però emergere un altro lato della
vicenda. Perché oltre ai poliziotti e ai carabinieri, alla ricerca degli
autori dell’agguato a quanto pare si siano messi pure i boss mafiosi dei
clan messinesi e di quelli che agiscono sul territorio dei Nebrodi.
Intercettazioni rivelano che gli uomini di Cosa nostra sono interessati a
capire come si sono svolti i fatti e soprattutto a scoprire chi ha agito senza
il loro permesso. E per questo svolgono indagini autonome e parallele a quelle
degli investigatori delegati dall’autorità giudiziaria. I padrini sospettano
che possa essere stato qualche “cane sciolto”. Ma, intanto, indagano.
L’incredibile interesse della mafia messinese per scoprire
chi avrebbe sparato all’auto di Giuseppe Antoci è stato svelato da una decina
di intercettazioni telefoniche e ambientali eseguite dai carabinieri
del Ros e dagli agenti della squadra mobile di Messina che indagano sulla mafia
dei Nebrodi. Qualche giorno dopo l’agguato al presidente del parco dei Nebrodi
i boss, parlando tra di loro, si chiedono insistentemente «cu fu» (chi è
stato?). Da una cosca all’altra la domanda è sempre la stessa, ma anche la
risposta: «Noi non siamo stati». E questo potrebbe rientrare nella tipicità del
metodo mafioso. Ma qui sembra essere diverso l’atteggiamento dei boss.
«Potrebbero essere stati i catanesi?» chiede un intercettato al suo
interlocutore, che risponde: «Ce l’avrebbero detto, quantomeno ci avrebbero
avvertiti per evitarci ulteriori guai». Insomma, gli storici clan dei
Bontempo-Scavo e le altre famiglie che in questi mesi hanno avuto tra le loro
file decine di arresti non si danno pace. Anche loro brancolano nel buio e, se
avessero avuto notizie, avrebbero fatto giustizia a modo loro oppure, come
spesso la storia della mafia insegna, avrebbero segnalato in maniera anonima agli
investigatori gli autori dell’attentato per allentare la pressione nei loro
confronti.
L’unica segnalazione anonima che è arrivata fino ad ora è invece
quella inviata a tre procure, Messina, Patti e Termini Imerese, al Ministero
dell’Interno, al capo della Polizia e all’autorità Anticorruzione. Sono sette
pagine piene di veleni scritte, secondo chi indaga, a più mani: non escluse
quelle di qualche poliziotto e di qualche politico locale. La denuncia anonima
adesso è al vaglio delle tre procure siciliane: vi si trovano accuse anche nei
confronti di Manganaro. Secondo l’anonimo il dirigente del commissariato di
Sant’Agata di Militello sarebbe anche “vicino” a esponenti politici del Pd e ad
alcuni personaggi dell’Antimafia come il senatore Giuseppe Lumia, eletto nella
lista “il megafono” di Rosario Crocetta.
Ma torniamo alle intercettazioni tra i boss. Nelle loro
conversazioni i mafiosi si lamentano dell’opera di Antoci che ha denunciato i lucrosi
affari delle cosche. Queste avevano in concessione pascoli di migliaia di
ettari nei Nebrodi, pagando cifre irrisorie per gli affitti dei terreni in
cambio di milioni di euro di contributi regionali ed europei. I boss avrebbero
quindi avuto motivi per toglierlo da quella posizione, pericolosa per i loro
interessi. Ma negano, nelle intercettazioni, di aver preparato e attuato
l’attentato. Di più, si lamentano di come quell’agguato abbia provocato
ulteriori difficoltà ai loro affari: da allora l’attenzione degli investigatori
su tutta la zona è aumentata parecchio.
fonte: l'espresso
fonte: l'espresso
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