"Positivi" ma non d'umore e, nonostante tutto, "consapevoli"


Breve sunto del lungo e travagliato periodo di Pandemia vissuto da un giovane sanfratellano

Antonino Scavina. 

San Fratello, 8 gennaio 2021, una data infausta per il mio paese che, proprio oggi, nel lontano 1922 veniva colpito da una sciagura tale che se ne sarebbe parlato per molto tempo, la frana che distrusse metà paese che, ancora oggi e dopo un secondo evento calamitoso nel 2010, porta ancora vive le ferite. Proprio oggi scrivo quest’articolo anche se ancora mi suona come “singolare” la proposta fattami da Carmelo Emanuele di scrivere quattro righe per “Sottolapietra” sul mio "triste evento calamitoso": il tempo d’isolamento che sto vivendo a causa del Covid-19, oggi provo lo stesso a darne riscontro; anche se non credo di essere il soggetto più adatto, né tanto meno il mio caso è più singolare di altri casi Coronavirus dei quali, purtroppo, veniamo a conoscenza giorno dopo giorno dai media non solo a San Fratello ma in tutto il mondo; non è un caso che questo fenomeno porti il nome altisonante di “Pandemia” e credo che proprio questo nome sarà sempre legato al 2020 che è ormai passato ma che inciderà sugli anni a venire sia come fenomeno mediatico che come evento doloroso e funesto che ha mietuto vite giovani, adulte e soprattutto anziane. Un triste scenario mi torna in mente in questo momento: le camionette dell’esercito che, a Bergamo, recavano, come insolita processione funebre, in approssimativi cimiteri, le migliaia di vittime di un virus del quale ancora c’è molto da scoprire.

Io la Pandemia l’ho veduta da diverse angolature; mi ci sono ritrovato dentro nel lavoro, come operatore all’interno di una comunità-alloggio per disabili psichici, nella quale, oltre a trascorrere momenti bellissimi che mi hanno formato e che mai dimenticherò, ho trascorso i giorni del “lockdown” cercando di proteggere, aiutare e preservare dal virus gli ospiti di quella struttura, sotto la guida saggia e attenta di coordinatrici e colleghe competenti ma soprattutto empatiche e giudiziose. Non era facile leggere la paura e la delusione negli occhi di soggetti come gli ospiti di cui ho avuto il privilegio di prendermi cura, uomini e donne indifesi che, da un momento all’altro, si sono ritrovati chiusi nella comunità, isolati, senza poter ricevere la visita dei loro cari, con solo gli operatori come tramite tra loro e il mondo esterno, eppure anche in quella situazione nasceva un sorriso, un momento di distensione, anche lo stesso igienizzare gli ambienti comunitari ogni fine pasto tante volte assumeva connotati gioviali e potevamo per un attimo “riposare la testa” dal martellante assillo generato nei nostri cuori e nelle coscienze de un virus che non dà scampo e dal quale è difficile venirne fuori.

Da cittadino, chiuso in casa, ho sperimentato la Pandemia come un momento di riscoperta degli affetti, quelli sinceri, dalla famiglia, degli amici fuggiaschi che, di tanto in tanto, incontravo sull’uscio dalla porta di casa e con i quali scambiavo quattro chiacchiere, in una fugace uscita per respirare un po’ d’aria pura e, in alcuni casi parlare di sé, del proprio luogo d’origine e della situazione dolorosa vissuta. Ho provato sentimenti contrastanti quando, dalla sera alla mattina, ho ritrovato la Croce antica del nostro Crocifisso incastonata nella facciata della Chiesa Madre, pensavo al segno di speranza e di invito alla preghiera che poteva sorgere nei cuori di chi avesse visto una Croce luminosa in un periodo di buio totale (dopotutto a questo serve una Croce) ma riflettevo anche sulla trasgressione di decreti che, anche se a mio avviso fallaci, erano in vigore per il nostro bene. Mio motto perpetuo è: “non è facile stare dall’altra parte della scrivania”, non è facile assumere scelte in nome di una comunità, dal piccolo gruppo domestico ai grandi gruppi civili e religiosi che reggono il mondo. Ho sofferto nel veder “mutilare” la storia e la tradizione del mio paese quando, in un doloroso e soprattutto silenzioso Venerdì Santo, davanti ai miei occhi si apriva una Piazza Convento vuota o quando, con molta assertività, veniva bloccata dall’alto la processione dei Santi Patroni. È stato difficile, eppure anche semplice vedere qualche bagliore di luce tra le fronde buie del Coronavirus durante tutta l’estate, mi riferisco a qualche viso amico lungo il viale principale, anche se molti erano velati da una mascherina chirurgica (che, credo, non riporremo nel cassetto tanto presto), alla grata riconoscenza a Dio che, fino a quell’istate, aveva esonerato San Fratello dai contagi. Ma era solo la quiete “prima” della tempesta, a ridosso del Natale mi sono ritrovato anch'io a vivere da "infetto", "positivo" (ma non d’umore) al famosissimo virus che, come me, colpì inesorabile tanti miei fratelli sanfratellani, riducendone alcuni molto male, ricoverati in ospedale o attaccati ai respiratori.

Il 22 dicembre del 2020 inizia il mio isolamento, dopo un tampone rapido risultato “positivo”, bel regalo sotto le feste... ma lo stesso ringraziavo e ringrazio il cielo che sino ad oggi, a 16 giorni da quel martedì mattina, io non abbia sviluppato alcun sintomo, come si dice in gergo: che io sia “asintomatico”. Anche se grato per il “bicchiere mezzo pieno” ho sofferto e soffro molto questo periodo d’isolamento, chiuso come un esemplare raro e pericoloso in una stanza che alcune volte mi sembra una gabbia. Meglio “isolato” che “intubato” ma la sensazione di sentirsi un "appestato" non è un granché, il dover dipendere, per quanto possibile, da altri anche per la semplice bottiglia d’acqua, lasciata dietro la porta per non entrare in contatto con me o per il piatto di pasta che non puoi prendere se prima tua madre non si sia allontanata abbastanza da preservare la tua e la sua incolumità... non è assai gratificante. L’attesa spasmodica che qualcuno dall’USCA chiami per indicarti la data del tampone molecolare e lo scoprire che il primo è nuovamente positivo sono esperienze dure, stressanti, avvilenti. Io ho passato il periodo di Natale così, il nuovo anno l’ho accolto in videochiamata con amici e i messaggi di auguri per me finivano tutti con: “ringrazia il cielo di non aver sviluppato sintomi” ma i "sintomi al cuore" chi li vede? Nello scrivere questo mi sento un ragazzino viziato perché penso a chi il Natale lo ha vissuto in ospedale o a chi “non lo ha vissuto” ma sono umano e lo sconforto e la debolezza sono tipici dell’essere umani. Mi sono ripromesso di non nascondere le mie emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo, anche se negativi, cerco di vivere dignitosamente questo momento, consapevole che, anche se uscirò domani o tra una settimana, saprò che l’ho vissuto in pienezza, senza sensi di colpa o altri orpelli mentali. Ringrazio quanti hanno avuto cura nel prendersi cura di me, di quanti hanno investito un po' del loro tempo per chiamarmi, per non farmi sentire troppo sono, per quelli che hanno messo mano allo smartphone per inviarmi un messaggio fraterno, per chiedermi come stessi in questi giorni di festa nei quali, dalla mia stanzetta in penombra, alcune volte non riuscivo a capire se fosse giorno o sera. Ho scoperto e riconfermato persone che posso definire amiche, ne ho rivalutate altre, senza mutare pensiero per ciò che sono e che ero e, mi auguro di non fare dietrofront per ciò che sarò quando si sarà aperta la gabbia, ma accetterò in pienezza quello che verrà.

Ringrazio chiunque perderà un po’ di tempo per leggere questo lungo articolo e spero di non aver offeso o tediato nessuno.

 

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