Il dialetto galloitalico di San Fratello nel nuovo romanzo di Lia Ricciardi e Mary Manasseri

 


Di Giuseppe Foti.

La recente presentazione dello scorso dieci aprile nell’aula consiliare del Comune di San Fratello di “Una finestra spalancata sulla Rocca”, romanzo scritto a quattro mani da Lia Ricciardi e Mary Manasseri, da marzo 2021 in vendita anche su Amazon, offre oggi l’occasione per tornare a parlare del libro. In 285 dense pagine, il testo racconta le storie di un gruppo di protagonisti, descrivendo le vicende del loro itinerario verso la crescita, dal tumulto di passioni dell’adolescenza, fino alla ricomposizione dell’età adulta -lasciamo al lettore il piacere di scoprire se della fatale caduta delle illusioni dell’età giovanile resterà solo cenere o vera gloria- lungo un arco temporale che abbraccia un secolo di storia, o meglio di microstoria. Lo svolgimento narrativo muove infatti da un’area geografica molto circoscritta, San Fratello, una cittadina dei Monti Nebrodi, in provincia di Messina, che sorge a ridosso della costa tirrenica, nota per la sua storia ultramillenaria, per aver dato i natali a San Benedetto il Moro, per la presenza sui suoi territori della razza equina del cavallo sanfratellano e, soprattutto, per la sua parlata galloitalica. Questo dialetto di origine italiana settentrionale, giunto in Sicilia in età medievale, è così diverso dai dialetti siciliani circostanti tanto che il filologo acese Lionardo Vigo, che per primo lo portò all’attenzione degli studiosi nel 1857, ebbe a definirlo “una lingua inintellegibile più della favella di Satanasso”.

Proprio il riflesso di questa composita realtà linguistica nella prima parte del racconto è uno degli aspetti che attrae maggiormente l’attenzione del lettore. La scrittura letteraria è infatti connotata dall’avvicendamento di italiano e dialetto sanfratellano con diversi passaggi riservati pure al dialetto siciliano. Una veste plurilingue nella quale Caterina, Nino, Antonietta, e l’universo dei personaggi sanfratellani che animano la fabula trovano la loro migliore caratterizzazione. La rappresentazione dei protagonisti passa, infatti, principalmente per la lingua, muovendo dall’assunto che non è possibile inventare un racconto ambientato a San Fratello senza mettere sulla bocca dei protagonisti parole ed espressioni del dialetto galloitalico locale. Nella scelta della mescolanza di codici, il nostro racconto trova riferimenti in numerosi precedenti illustri, tra i quali occorre, in particolare, ricordare i romanzi di Andrea Camilleri e, per il sanfratellano soprattutto, le opere di Vincenzo Consolo, da entrambi però il libro si discosta, dal momento che qui il dialetto ha principalmente il compito di rispondere all’esigenza espressiva della verisimiglianza. In Camilleri, invece, come noto, la lingua siciliana caratterizza spesso i personaggi in chiave giocosa ed è frutto di un’invenzione letteraria che, pur muovendo da una base reale, non trova corrispondenze nelle varietà del siciliano parlato nell’Isola. Ancora differente la dimensione dialettale, questa volta sanfratellana, nel Sorriso consoliano, dove le imprecazioni nel dialetto galloitalico di San Fratello, messe sulla bocca del povero prigioniero di Don Galvano Granza Maniforti, sono tratte dalle ottave popolari raccolte dallo studioso sanfratellano Luigi Vasi alla fine dell’Ottocento. Diversamente, nel romanzo di Ricciardi e Manasseri il dialetto assolve principalmente alla funzione mimetica, ovvero di rappresentazione di ambienti e persone attraverso la creazione di un effetto di realtà. Per svolgere appieno questo compito, il sanfratellano delle autrici attinge alla tradizione linguistica parlata e cerca di riprodurne fedelmente e, aggiungerei, felicemente i moduli. Il libro mostra quindi di essere in grado di fornire, all’interno di un coinvolgente quadro narrativo, la possibilità di percorsi di scoperta e conoscenza non solo della storia, ma soprattutto della lingua locale. L’enunciazione mistilingue, o code-mixing, che connota la prima parte del libro non è infatti limitata al discorso diretto dei personaggi, ma è parte integrante della narrazione, indispensabile per ricostruire ambienti ed evocare atmosfere.

Con questa finalità, le parti dialettali, segnalate sempre tra virgolette, sono affiancate dalla traduzione in lingua e, ove necessario, glossate attraverso un ricco apparato di note che informa il lettore sugli aspetti della cultura locale, anche materiale, utili a formarsi un’idea chiara dell’universo in cui procede il racconto.

L’unione di espressioni dialettali e note in calce alla pagina o delle glosse abilmente inserite nel tessuto narrativo consente quindi di ricostruire un vero e proprio lessico del sanfratellano che, procedendo ad esempio per campi semantici, illustra con efficacia la cultura locale. Solo per fornire qualche esempio, si vedano le parole relative al vestiario tradizionale. Nelle prime pagine del libro troviamo, in ordine di apparizione: 1. vistina dû vilut, l’abito intero da donna in velluto che veniva “confezionato dalla sarta di fiducia” (p.12); 2. sciälu dû casinetu, “lo scialle, per lo più bordeaux con fantasia a fiori e a foglie, bordato di frange, usati dalle persone meno abbienti” per andare a sposarsi (p. 12); 3. sciarpan, “l’ampio scialle nero” di lana, di forma rettangolare, con frange coronate da sfere dello stesso tessuto (p. 17); 4. cippan, il camicino da donna (p. 17); 5. friò, l’ampia gonna provvista di balza che “faceva da mantella” (p. 17); 6. cotu, il cappotto che “veniva indossato dalle persone più agiate” (p. 19); e, per gli uomini, 7. càpula, il berretto basso e tondo, provvisto di visiera (p. 32); 8. scapucc, il mantello di orbace con cappuccio, usato un tempo da contadini e pastori (p. 32); 9. schierpi dû pieu le calzature, simili a cioce, ottenute da pelle di bue conciata (p. 33).

L’attenzione alla matrice dialettale trova riscontro -ulteriore merito del libro- nella scelta della veste grafica delle parole sanfratellane che rispetta l’ortografia dei libri del compianto Benedetto Di Pietro, l’autore sanfratellano più prolifico che, con le sue opere ha divulgato l’ortografia del galloitalico di San Fratello su basi scientifiche, fino ad imporla come norma. Non sfugge quindi al lettore che, così strutturato, dietro l’invenzione letteraria il romanzo funge da naturale ponte tra l’italiano e il dialetto sanfratellano, aprendosi ad un pubblico ampio di lettori dialettofoni e non. Un percorso di scoperta che, nella realtà locale, riguarda quanti, anche nelle nuove generazioni sanfratellane, non parlano il dialetto galloitalico e ne sono, spesso, solo competenti passivi. Naturale quindi immaginare un utilizzo del libro, opportunamente chiosato e adattato, in percorsi di apprendimento scolastici, per i quali il testo offre innumerevoli spunti di lavoro. 

Nello spirito della legge regionale n. 9 del 2011 sull’inserimento della dimensione storica e linguistica siciliana nelle scuole, il plurilinguismo del romanzo permette, ad esempio, di instaurare un confronto paritario tra dialetto e italiano, tenendo, naturalmente, conto delle specifiche funzioni e ambiti espressivi e comunicativi. Questo quindi l’augurio al libro e alle sue autrici, insieme all’auspicio della più ampia diffusione tra il pubblico dei lettori più attenti.

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